Per pianoforte e orchestra – Dopo Beethoven: il ‘900

Francesco Dilaghi traccia un percorso, necessariamente antologico, sulla forma del concerto per pianoforte e orchestra, da Bach a Bartók.
Qual’è l’etimologia della parola “concerto”: aspra contesa o intreccio pacifico? Vivace contrapposizione o accordo armonioso? Entrambe sono possibili, ed è forse proprio questa la ragione del successo di questo genere strumentale in cui lo strumento a tastiera dialoga con la multiforme compagine dell’orchestra dai mille diversi aspetti.
Una forma che ha conosciuto una crescente fortuna soprattutto tra la fine del ‘700 e tutto il secolo successivo. E che solo verso la metà del Novecento sembra aver perso quella posizione di centralità nel repertorio e nel favore del pubblico.

Dopo Beethoven: il Novecento

Il grande repertorio del secolo scorso si incentra soprattutto sui nomi di Stravinskij, Ravel, Prokof’ev e Bartók, ciascuno con una propria particolare e inconfondibile specificità di poetica e di linguaggio. Ma questi sono solo i nomi di maggior rilievo, gli autori delle composizioni più saldamente rimaste nel repertorio concertistico e discografico. Sono solo le punte dell’iceberg rispetto a una fioritura molto più abbondante e troppo spesso dimenticata. Infatti, accanto a un numero relativamente esiguo di composizioni molto amate e molto conosciute, il panorama di questo genere strumentale è sorprendentemente ricco di pregevoli lavori che restano a margine del normale repertorio.

Intento non secondario di questo percorso, che attraversa oltre due secoli di musica, è proprio quello di esplorare il terreno, mettere a fuoco il contesto nel quale questi capolavori fioriscono. Di dare spazio anche a opere meno note e introdurre ogni volta uno di questi più conosciuti e amati capolavori: che si potrà ascoltare, alla fine di ogni puntata del ciclo, nel normale palinsesto della radio.

a cura di Francesco Dilaghi,

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Puntate

Gli Anni Quaranta

In questa ultima puntata sul concerto per pianoforte e orchestra approdiamo agli Anni Quaranta e ritroviamo alcuni nomi già noti. In Francia Poulenc, al quale però si affianca anche un altro musicista del Gruppo dei Sei, Darius Milhaud. In Ungheria Bartók con il suo Terzo (e ultimo) Concerto. In Germania Hindemith, con un lavoro singolare e assai poco presente nel normale repertorio. Il nostro percorso si conclude con una composizione di uno dei maggiori musicisti del ‘900, Arnold Schönberg. Ne esaminiamo una partitura che sembra porsi come ideale conclusione di uno sviluppo organico e coerente di questa forma che si può far partire, quasi un secolo prima, da Liszt.


Verso la metà degli Anni Trenta, la produzione nel genere del concerto pianistico risente ancora della ventata neoclassica che aveva attraversato l’Europa nel decennio precedente. Questa sorta di ritorno all’ordine è riconoscibile nelle composizioni di un po’ tutti gli autori inclusi in questa puntata: dai francesi Francis Poulenc e Jean Françaix, dai tratti di misurata e ironica eleganza, al vitalismo entusiasta di Sostakovic nel Concerto per pianoforte, tromba e archi, fino all’eclettico, esuberante Concerto op. 13 di Benjamin Britten.


Negli Anni Trenta Paul Wittgenstein, pianista austriaco rimasto vittima di una ferita di guerra, commissiona due lavori singolari. Entrambi per la sola mano sinistra e orchestra, sono diametralmente diversi tra loro. Ne sono autori Ravel, che aveva appena concluso la composizione del Concerto in sol, e Prokofiev, che firma così il suo Quarto Concerto. Ma il panorama si era già da alcuni anni esteso anche al Nuovo Mondo, dove George Gershwin dava vita al suo esperimento di un “jazz sinfonico”. Intanto Bartók, in Ungheria, presentava il suo Secondo Concerto, solido caposaldo del repertorio novecentesco.


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